lunedì 4 novembre 2013

Università e Sistema Paese

Esiste un punto su cui non c'è praticamente discussione in qualunque analisi socio-economica, di qualunque paese o contesto geo-politico si tratti. Ed è sul ruolo chiave della scuola, a tutti i livelli, come motore trainante dello sviluppo economico senza ovviamente in questo dimenticare il valore intrinseco della conoscenza.
Già in passato abbiamo parlato del  valore economico della conoscenza, in senso più generale, nell'ambito delle scienze fisiche. Tuttavia una relazione fra buona scuola e buona economia non è legato solamente ai settori più tradizionalmente vicini al mondo della produzione e della tecnologia. È un meccanismo più generale e piuttosto interdisciplinare. Buona scuola implica, o consegue, probabilmente entrambe le cose, da buone pratiche amministrative, da buona politica e buona società.

Il diagramma che segue, riportante il prodotto interno lordo (PIL) rispetto alla percentuale dello stesso spesa, genericamente, per istruzione, è esplicito. Ogni soldo speso in formazione ritorna con gli interessi in termini di competitività economica. La fonte dei dati, come riportato nella figura, è l'Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo (OCSE).

Non c'è dubbio per altro che tutti i meccanismi che rendono funzionale o meno un percorso di formazione diventino critici quando si discute dell'ultimo grado di formazione, ovvero quella universitaria. Grado certamente sempre più lontano da un'ambientazione di élite come era ancora qualche decennio fa per essere parte integrante della catena formativa.

Ma come è quindi veramente la qualità dell'offerta formativa universitaria in Italia?

Il tema non è solamente accademico, nel senso di essere parte di una discussione spesso un po' sterile sui principi primi dell'istruzione. Ha come abbiamo detto valenze economiche primarie e riguarda scelte politiche anche fondamentali, mettendo in campo diverse visioni ideologiche ed economiche.

Ad esempio, quanto sono buone veramente le università italiane? È vero che abbiamo troppe università e troppo piccole? Spendiamo troppo o troppo poco per gli studenti? I professori sono tutti parenti fra loro e non esiste alcuna richiesta di qualità?

Insomma un'ampia quantità di temi che è di importanza fondamentale che vengano discussi, e che purtroppo spesso si ha la precisa sensazione che comunque non escano mai dalla cosiddetta cerchia degli specialisti, risultando quindi sostanzialmente ininfluente nell'ambito della più ampia discussione politica nel Paese.

Ma partiamo da notizie che spesso ci sentiamo proporre dai media in varia forma. Ovvero: "le migliori università italiane sono lontanissime dalle posizioni di testa in una qualunque classificazione degli atenei dei paesi sviluppati".

La notizia è vera. Per esempio relativamente alla voce università italiane in wikipedia si vede che, tipicamente, in queste classifiche le università italiane sono presenti in posizioni di relativo rincalzo. Nel caso della classifica QS World University Ranking si scopre che in classifica ci sono, nel 2011, 21 atenei su un totale di 72 considerati in Italia fra i primi 700 nel mondo. E le migliori sono oltre la posizione 150.
Un sito spesso capace di fornire notizie e dati di grande valore per il mondo universitario e della ricerca è quello del ROARS, a cui faremo riferimento ampiamente anche in seguito. Il ROARS pubblica un'interessante tabella con i risultati per le università italiane relativi a classifiche stilate da vari enti.
In ogni caso, indipendentemente dalla classifica, grossomodo il risultato è che 25-30% degli atenei italiani sono in classifica ed in posizioni non vicine alla "vetta", anche se spesso anche lontani dalla "coda" vera e propria.

La valutazione del significato di questi risultati però, come sempre, richiede qualche ragionamento. Essenzialmente il punto è che ogni valutazione ha significato nella misura in cui i criteri di valutazione sono conformi ad un determinato obiettivo. Ad esempio, per intenderci, supponiamo di voler decidere quale è la "miglior macchina sul mercato". È evidente che potremo propendere verso un modello super-sportivo a grandi prestazioni, piuttosto che ad un altro parco di consumi, come ad una macchina grande e spaziosa o una city car. In dipendenza da quali criteri decidiamo di adottare che a loro volta devono riflettere l'obiettivo della valutazione. E, non ultimo, il costo che riteniamo di poter affrontare.
La questione delle università è della stessa natura. A quali criteri soggiace questo tipo di valutazione? La risposta è in effetti ben nota, e risiede nello stesso meccanismo per cui esistono società che si occupano della valutazione di aziende ed enti vari per suggerire se siano convenienti o meno come obiettivo di investimento, le ben note ed in parte famigerate agenzie di rating.

Ebbene, nel nostro caso, queste classifiche vogliono rispondere ad una domanda in fondo semplice: dove converrebbe far studiare i nostri figli? In queste valutazioni quindi ci sono una grande quantità di parametri che si legano, ad esempio, alla facilità di trovare lavoro post-laurea ed a quanto verrebbe pagato, alle "facilities" per studenti come dormitori, impianti sportivi, ecc. Al numero e qualità dei docenti, e così via. È una valutazione che guarda più che altro alle "prestazioni" piuttosto che al "costo/prestazioni". Le migliori università in questa categoria sono spesso anche le più costose.

Di fatto quindi, una volta meglio compresa la portata di queste valutazioni, appare abbastanza chiaro che il risultato delle università italiane è legato alle università stesse, e come tale non è sensato minimizzarlo, ma è anche a una valutazione del sistema Italia nel suo complesso. Mi pare che non sia molto difficile da intuire che se si ha la possibilità economica ci sono poche ragioni (tecniche) per far studiare i propri figli a Milano piuttosto che nei migliori atenei inglesi o americani. E questo in realtà anche se le università milanesi fossero quanto di meglio si potesse immaginare dal punto di vista didattico e professionale. Il fatto è che risulta difficile competere con l'impatto socio-economico del contesto in cui le migliori università di Boston o della California agiscono rispetto a scenari italiani (e non solo, ovviamente). In aggiunta il fatto che l'Italia sia una ventina d'anni che scala, al contrario, le classifiche di competitività economica ha ovviamente un evidente impatto su queste considerazioni.

Di conseguenza appare anche chiaro come la banalizzazione di queste valutazioni sulle università che spesso i media generalisti operano in termini quasi da stadio, possa essere funzionale ad un dibattito politico ormai sempre più dominato da opposti fondamentalismi, ma certamente con poco o persino nulla a che fare con la reale natura del problema.

Di argomenti di discussione invece ce sono moltissimi.
Per esempio uno dei punti che in queste classificazioni delle università appare spesso è che gli istituti più piccoli sono tendenzialmente penalizzati. Il motivo è semplice. Supponiamo di confrontare l'università X con, diciamo 1000 docenti e ricercatori, con l'ateneo Y con solamente 100 persone in quei ruoli. Ovviamente, a parità di qualità di questi professionisti, l'università X sarà in molte classifiche avvantaggiata in quanto più presente per impatto economico (numero di brevetti, spin-off aziendali...) o scientifico (numero di pubblicazioni...). Solitamente si afferma che le università siano appunto troppo piccole ed effettivamente si possono citare casi eclatanti di atenei al limite delle dimensioni operative.
Vuole dire questo che in Italia ci sono troppe università, magari troppo piccole, e quindi bisognerebbe ridurne il numero per favorire la crescita di poche grandi università?

Questa affermazione in effetti è comune, piuttosto complessa nella strategia complessiva,  è comunque anche falsa. Il grafico a fianco, tratto dal volume "Malata e denigrata: l'università italiana a confronto con l'Europa" a cura di M. Regini (Roma, Donzelli 2009), mostra come il rapporto fra offerta universitaria ed abitanti di alcuni paesi europei e Stati Uniti ci veda, al solito, in ultima posizione. Purtroppo sulla base di queste ed altre, altrettanto erronee, considerazioni è stata messa in atto una sostanziale riduzione del numero di corsi di laurea offerti dai vari atenei con risultati dubbi anche sulla possibilità di ottenere sostanziali risparmi economici.

Un altro punto che è importante nella valutazione dell'offerta formativa è senza dubbio il rapporto fra docenti ed allievi. Non c'è dubbio sul fatto che definire quale sia il rapporto ottimale, non necessariamente 1:1, è un obiettivo complesso. Però è altrettante certo che l'affollamento nelle aule e nel rapporto coi docenti di sicuro è nemico della qualità della didattica.

Il caso italiano è schematizzato nell'istogramma che segue, relativo all'anno 2010, i dati sono ancora di fonte OCSE. Appare evidente che il rapporto docenti/studenti in Italia è piuttosto sfavorevole. Aggiungiamo a questo il fatto che sono piuttosto pochi in Italia i giovani che frequentano l'università e si laureano (fonte Eurostat) e si delinea uno scenario in cui sia l'offerta universitaria che le strutture a disposizione appaiono del tutto sotto-dimensionate rispetto alle esigenze di un'economia avanzata.

Effettivamente, come abbiamo già ampiamente discusso in passato, il nostro Paese è fra i fanalini di coda anche per il numero di ricercatori, parametro che è ovviamente parzialmente legato a quello del numero dei docenti universitari.

Esempi di questo genere potrebbero continuare a lungo. La miopia della politica dedicata in questi ultimi anni all'istruzione, in particolare quella universitaria, appare del tutto inspiegabile indipendentemente dal colore politico o attitudine culturale.
Il punto chiave della questione è che il Paese spende troppo poco per l'istruzione universitaria. E vede questa spesa come, appunto, un peso e non un investimento. Ancora possiamo renderci conto dell'entità del problema con altri grafici.
Quello che segue, ammetto di un po' difficile lettura, mostra però quella che potremmo definire come spesa totale per università e ricerca universitaria per diversi paesi (anno 2009). Le fonti dei dati sono indicate in legenda. A prescindere da alcuni dettagli tecnici il risultato non richiede grande interpretazione, ed è per altro abbastanza  noto in quanto emerge da studi analoghi di diversa origine. Siamo fra i paesi che danno minore importanza all'istruzione universitaria, almeno a giudicare dagli sforzi che dedichiamo al settore.


La questione, come sempre, sta tutta nella definizione di opportune priorità. Nell'opinione pubblica è forte la convinzione che il dissesto finanziario del nostro Paese sia causato dallo sperpero di denaro pubblico da parte di politici e manager. C'è ovviamente del vero in questo, ma sarebbe anche bene che alla stessa opinione pubblica venga fornita una visione più matura della questione. Le auto blu, i super-stipendi, ecc. sono più che la causa del dissesto la conseguenza dell'applicazione di pessime pratiche amministrative che si rivelano a tutti i livelli, dalla gestione dei piccoli comuni alle grande aziende. E non solo e forse neppure principalmente nel pubblico per altro, come la vicenda infelice di tante grandi aziende italiane sparite dal mercato negli ultimi decenni sembra suggerire.
Di fatto, e fatto salvo che buone pratiche amministrative sono fondamentali ed ineludibili, i finanziamenti per l'istruzione, non solo universitaria, dovranno comunque competere con altri settori ad "alta sensibilità sociale", sanità, difesa, sicurezza, assistenza sociale, ecc. Se non si diffonde la convinzione che non basta ridurre lo stipendio dei parlamentari per portare gli investimenti in formazione ed innovazione nel nostro Paese ai livelli necessari credo che difficilmente si potrà aprire un dibattito proficuo. Un esempio chiaro della mancanza di programmazione che inevitabilmente porta a legislazioni di emergenza lo si può vedere nell'andamento del finanziamento alle università sotto forma del cosiddetto "Fondo di Finanziamento Ordinario", FFO. La fonte dei dati è il Consiglio Universitario Nazionale (CUN).
L'andamento temporale del FFO, corretto come doveroso per l'inflazione, mostra che negli anni 2000 è rimasto piuttosto stabile se non addirittura caratterizzato da un lieve aumento. Allo scoppiare della crisi dei mutui "subprime" intorno al 2008, prima avvisaglia della crisi globale che hai poi attanagliato le economie occidentali, vediamo che in seguito alla necessità di affrontare tassi di interesse sul nostro debito sempre più alti e la crescente sfiducia dei mercati il taglio dei finanziamenti universitari è stato sensibile e continuo come parte del più generale taglio della "spesa pubblica".

Una domanda allora diventa d'obbligo, e non è retorica. Il Paese sarebbe veramente pronto a considerare l'investimento in formazione come di massima priorità e quindi a rimuovere il comparto da quelli sottoposti a riduzione di spesa anche nell'emergenza finanziaria in cui ci troviamo?
La sensazione è che in realtà fino a che il problema non verrà affrontato a livello politico e di opinione pubblica senza artifici retorici e falsi miti difficilmente ci potrà essere un sostanziale cambio di rotta anche nei prossimi anni. Il richiamo al primo grafico mostrato in questo articolo, quello che mostra la relazione da PIL ed investimento in formazione, dovrebbe mostrarci senza ambiguità la strada da seguire, anche quando fosse di difficile digeribilità per un'opinione pubblica ormai in preda a derive demagogiche in tutti i settori.

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